Nel 1994, dopo una lunga ed estenuante giornata di inconcludenti dibattiti sul federalismo, mi incamminavo con Gianfranco Miglio verso il nostro albergo. Prima di andare a dormire ruppe il silenzio demoralizzato fra noi guardandomi dritto negli occhi: “Marco, questo Paese un’autentica riforma federale non la farà nel mio arco di vita, ma neanche nel tuo”. Venti anni fa tutti cianciavano di “federalismo”, ma per i politici navigati ciò significava solo dire vellicare la Lega o la sua base e utilizzarne i voti per governare. L’operazione è riuscita definitivamente al centro-destra, che evidentemente aveva politici migliori (o forse semplicemente con più mezzi) di quelli di sinistra. Vi ricordate il 2001, quando Bossi diceva che la destra offriva sempre qualcosa in più per l’alleanza? Il federalismo era la parola magica, l’“apriti sesamo” che schiudeva le porte del governo nazionale. Ma nessuna delle forze politiche in campo aveva alcun interesse a un’autentica trasformazione dell’ordinamento politico-territoriale. Confesso che, ingenuo com’ero, credetti solo alla prima parte della previsione di Miglio. I vent’anni da allora trascorsi mi hanno reso certo della esattezza profetica del mio professore. Questo Paese è irriformabile. È un castello di carte, ma si trova ancora in una stanza senza un alito di vento. A causa delle relazioni parassitarie consolidate e dei mille rivoli nei quali si è incanalata la spesa pubblica non accadrà nulla per un bel po’.
La conclusione è semplicemente desolante e lo diventa ancor di più se ragioniamo in prospettiva. Agli attuali livelli di indebitamento (il debito pubblico risulta ancor più fuori controllo nell’era Monti-Letta rispetto agli anni precedenti), nonché a quelli di spesa pubblica e tassazione, l’apparato produttivo del Nord (al Sud non esiste nulla che possa essere realisticamente chiamato con questo nome) sarà distrutto. Ebbene, sappiamo tutti che nel panorama politico non esiste nessuna proposta concreta volta ad abbattere debito, tassazione e spesa (per non parlare della rapina fiscale ai danni della Lombardia, che quando non viene grossolanamente negata è considerata la “normalità” della politica italiana). I politici al comando andranno avanti così, con manovre di piccolo cabotaggio fino a che non sarà certificato non il declino dell’Italia, ma la fine di ogni impresa privata. A quel punto la “forza delle cose” spingerà milioni di straccioni dalle Alpi al Canale di Sicilia a ridiscutere tutto: tasse, rapina fiscale, confini. Nella stanza soffierà un vento tale da far saltare il castello di carte al punto che nessuno sarà più in grado di ricomporre il mazzo. Tutti hanno la piena consapevolezza di ciò, da Napolitano a Monti a Letta fino all’ultimo rampollo della classe dirigente di questo Paese, ma nessuno muoverà un dito per evitare il baratro. Valga un aneddoto. Carlo Marx una sera a Londra incontrò una donna arguta che gli disse: “Ho letto i suoi libri e non credo che uno come lei, con i suoi gusti aristocratici, si troverebbe bene nella società egualitaria e comunista del futuro”. Marx sorrise e rispose: “Non si preoccupi questo accadrà quando noi saremo morti da un pezzo”. Ecco, i nostri politici, che abbiano 38 anni come Matteo Renzi o mezzo secolo in più come Giorgio Napolitano, ragionano esattamente così: il disastro accadrà quando io non ci sarò più.
Ma la classe dirigente non è formata solo da politici. Gli imprenditori hanno per mestiere il dovere di immaginare il futuro. Se secondo la teoria economica il loro successo dipende proprio dal prevedere le preferenze future dei consumatori, nel caso Italia, conviene loro essere previdenti globali, o preveggenti. E infatti lo sono. I loro figli sono quasi tutti all’estero, o sul piede di partenza, proprio come i loro capitali e le loro aziende. Ma non è detto che tutti i sciur – politici e imprenditori – possano emigrare o aspettino di passare a miglior vita. Come ha limpidamente tratteggiato Bernardo Caprotti, uno dei più lucidi imprenditori lombardi, in una lettera al Corriere di qualche giorno fa, alcuni non possono delocalizzare e la loro fuga avrebbe costi elevatissimi. Questi sono coloro ai quali occorre rivolgersi con una proposta politica cristallina.
In questo senso, mi sento di affermare l’idea della creazione di un polo indipendentista in ogni regione produttiva la cui prima ed unica richiesta sia quella della costruzione di “un processo referendario che, attraverso il peso politico della raccolta firme dei cittadini e quello delle votazioni dei consigli comunali e provinciali riesca ad esercitare pressione sul Consiglio regionale e sul Presidente”. Per mezzo delle istituzioni regionali si dovrà indire un referendum per l’indipendenza della Lombardia. Il che vuol dire “impegnarsi a costruire un ampio consenso all’interno delle istituzioni regionali” (cito da un recente documento di Color44).
Da quando mi sono apertamente espresso a favore del progetto di Color44 incontro persone (a volte anche “importanti”) che mi dicono: “Hai ragione, sarebbe l’unica soluzione, ma non si può fare”. E poi giù a narrarmi come si possa riportare la spesa pubblica italiana ai livelli del 2003 … Il realismo politico è la più importante tradizione politica delle aree italiche, da Machiavelli a Gaetano Mosca a Gianfranco Miglio. E oggi tutta questa tradizione ci dice che scommettere sull’indipendenza non è certo meno razionale rispetto a posizionare le proprie fiches sul tavolo della roulette su di una fantomatica casella con la dicitura “abbassamento delle tasse, riduzione della spesa, del debito e della rapina fiscale”. Tutti sappiamo per certo che su quella casella la pallina non si fermerà mai e che il croupier insieme alle nostre fiches si porterà via il futuro dei nostri figli.
Se si ha la consapevolezza che l’Italia crea più problemi di quanti non ne possa risolvere, gli spazi per il “fabulismo” son proprio finiti e l’unica soluzione razionale è quella di utilizzare le regioni esistenti e le popolazioni regionali per far saltare il banco. ( fonte Marco Bassani lintraprendente.it)