Ci sono tante Italie che esprimono diversità, ma Roma non le ha mai valorizzate.
Lombardi e veneti possono finalmente dare la svolta, eguali diritti, per rendere omogenee - soprattutto dal punto di vista delle garanzie e delle tutele - le condizioni di vita di tutti i cittadini della Repubblica. Ma così non è stato.
Dall’osservatorio privilegiato del nostro presente dobbiamo ammettere che il regionalismo ordinario dell’uniformità ha fallito, lasciando dietro di sé un quadro tutt’altro che omogeneo. In alcune realtà, dove ha espresso un oggettivo sviluppo della democrazia praticata, ha funzionato bene; in altre ha funzionato poco e male, in altre niente affatto. Basta scorrere la graduatoria del residuo fiscale - guidata dalla Lombardia - per rendersene conto.
Che l’essenza dell’identità italiana sia costituita da un eterogeneo e variegato pluralismo territoriale e identitario è un’opinione acquisita e condivisa sin dal secolo decimonono. Tante Italie che esprimono le diversità. Rappresentano dunque una vera e propria ricchezza, ma - nel corso degli oltre 150 anni che ci separano dal 1861 - sono stati fatti pochissimi tentativi per valorizzarle. E farne un elemento virtuoso di sviluppo e crescita dell’intera comunità nazionale. Ricorrere a un referendum consultivo territoriale per accedere all’autonomia garantita dalla Costituzione come quello lombardo e veneto del 22 ottobre - significa esaltarle. Significa anche valorizzare la Costituzione della Repubblica e cercare di farla funzionare davvero.
L’INNOVAZIONE
L’aspetto più innovativo della riforma del Titolo V del 2001 era senza dubbio rappresentato dalla costituzionalizzazione del principio del “regionalismo differenziato”, ispirato al federo-regionalismo spagnolo. E tuttavia, da quando è stato introdotto - malgrado quattro regioni per cinque volte (Toscana 2003, Piemonte 2006, Veneto e Lombardia 2007, Piemonte 2008) abbiano cercato di percorrere la strada della trattativa con il governo - non ha mai funzionato. È l’aspetto inattuato di quella riforma. Farlo funzionare con un referendum a monte della trattativa significa agire nel più profondo rispetto della Carta costituzionale, con grande senso di responsabilità istituzionale. Perché se il “regionalismo differenziato” non funziona neppure con il referendum, che è un atto di democrazia consensuale e partecipativa, non v’è alcun dubbio. Bisogna riscrivere l’articolo 116 e individuare un altro metodo, senza la trattativa, ma tutelando il principio della differenziazione.
GIANO BIFRONTE
Il regionalismo oggi è una sorta di Giano bifronte. Metà delle regioni hanno un rapporto creditizio con lo Stato: Lombardia, Emilia e Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana, Umbria, Marche e Liguria. L’altra metà del sistema assorbe il residuo fiscale prodotto da queste regioni. La sottrazione di risorse ai territori più avanzati, che sono virtuosi e le utilizzano con criteri di alta redditività ed elevata produttività, per destinarle ad altri territori meno virtuosi, significa incidere negativamente sull’andamento dell’economia nazionale, riducendone il potenziale di crescita. Penalizza le regioni virtuose senza aiutare quelle non virtuose.
Per ciò al rilancio dell’economia lombarda e veneta corrisponde il rilancio dell’intero sistema regionale. Il punto d’arrivo è la riorganizzazione della pianta amministrativa del Paese, con la concessione di ampi margini di autonomia alle regioni virtuose. Mentre le altre - che non garantiscono adeguati servizi ai propri cittadini e gravano sulla spesa pubblica - devono essere accompagnate verso lo sviluppo.
Un’ultima considerazione: il residuo fiscale lombardo. Si tratta - come noto - di 56 miliardi di euro, una vessazione fiscale che non ha pari in Europa e nel mondo. Emerge dalla graduatoria del residuo fiscale: sommando i dati delle regioni che seguono la Lombardia, non si raggiunge il dato lombardo.
Questa considerazione certifica come il rapporto fra la Lombardia e lo Stato centrale sia profondamente squilibrato e oggettivamente iniquo. Proprio per ciò il tema del residuo lombardo - al netto della capacità produttiva e fiscale e del reddito procapite regionale - è una questione nazionale da risolvere. Nel segno dell’unità, per altro ribadita dal quesito referendario.